Attenzione a ricattare affettivamente chi ci sta accanto. Così facendo si commette un reato e al partner spetta un sostanzioso risarcimento.
Purtroppo capita più spesso di quanto possiamo pensare: minacciare il partner di troncare la relazione per ottenere denaro. Si chiama ricatto affettivo: una subdola tecnica manipolatoria messa in atto da chi non si ferma davanti a nulla e sfrutta i sentimenti altrui per incassare soldi.
Bene, secondo la Cassazione minacciare la persona “amata” di mettere fine alla relazione se non accoglie le richieste di scucire soldi non è semplicemente una pratica censurabile sul piano morale, ma un vero e proprio reato punito dal Codice Penale. Più nello specifico, si tratta di un’autentica estorsione.
Quando parliamo di estorsione ci riferiamo al tentativo di procurare un ingiusto profitto a sé o a altri attraverso la violenza e la minaccia, per costringere una terza persona a fare o a omettere qualcosa. Si tratta, come detto, di un reato punito severamente dal Codice Penale. Vediamo cosa rischiano i “ricattatori affettivi”.
Ricatto affettivo, cosa rischia chi minaccia il partner per avere soldi
Come forma di estorsione, il ricatto affettivo ricade sotto l’articolo 629 del Codice Penale, che per questo reato prevede una pena base che va dai 5 ai 10 anni di reclusione, oltre a una multa da 1.000 a 4.000 euro. La Cassazione lo ha stabilito in una recente pronuncia.
I giudici della Suprema Corte si sono così pronunciati sul ricorso di un uomo condannato in primo e in secondo grado per estorsione e atti persecutori ai danni della sua compagna. Tra i capi d’imputazione rientrava appunto la minaccia di chiudere la relazione se la donna non gli avesse versato delle somme di denaro. L’imputato si era difeso sostenendo che i messaggi di WhatsApp non potessero essere utilizzati in mancanza di un motivato provvedimento da parte dell’autorità giudiziaria.
La Corte però ha rigettato questo motivo di impugnazione. I messaggi WhatsApp infatti non erano stati acquisiti dalla polizia giudiziaria. A produrli era stata la compagna dell’imputato, che li aveva allegati alla denuncia. Perciò i messaggi inviati attraverso la piattaforma di Meta andavano considerati come prove documentali, alle quali non si applicano discipline come quelle sulle intercettazioni o sull’acquisizione della corrispondenza.
I giudici hanno sconfessato anche un’altra parte della linea difensiva dell’imputato: quella che faceva leva sul registro comunicativo “forte” che, secondo la tesi dei difensori, era abituale all’interno della coppia e dunque da considerare assolutamente consensuale.
Per la Cassazione però fatti come insulti, offese pesanti, minacce di morte e reiterato disprezzo vanno considerati forme di prevaricazione e sudditanza psicologica. Perciò la Suprema Corte ha escluso che i versamenti in denaro richiesti alla donna derivassero da una sua libera scelta.